Deepfake e propaganda: l’Ungheria è il laboratorio oscuro dell’intelligenza artificiale politica

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La campagna che non esiste, ma che tutti vedono

Un video circola da settimane sui social: soldati ungheresi combattono in Ucraina e tornano a casa in bare coperte dalla bandiera nazionale. Non è realtà, è intelligenza artificiale.
Eppure è comparso sulla pagina Facebook del primo ministro Viktor Orbán, rilanciato dalla televisione di Stato e condiviso da migliaia di utenti convinti che fosse autentico.

In vista delle elezioni del prossimo aprile, la macchina della propaganda ha cambiato volto. Non più solo post mirati o slogan aggressivi: ora la battaglia si combatte nel territorio fluido e pericoloso dei deepfake.

Orbán, Magyar e il gioco dell’inganno digitale

Da un lato, il leader nazionalista Viktor Orbán e il suo partito Fidesz, sostenuti dal Movimento di Resistenza Nazionale, che secondo i dati di Meta e Google ha speso oltre 1,5 milioni di euro per contenuti promozionali, molti dei quali generati da AI, spesso senza etichetta.
Dall’altro, l’oppositore Péter Magyar, che a sua volta ha usato immagini sintetiche, anche se in chiave ironica.

Tutti giocano la stessa partita, ma con armi diverse: quelle che non distinguono più realtà e finzione.
Alcuni video mostrano persone inventate che accusano Magyar di tradire il Paese; altri lo ritraggono in deepfake mentre rilascia dichiarazioni mai pronunciate.
È una strategia già vista altrove, dagli Stati Uniti all’India: creare contenuti che generino reazioni emotive forti, anche a costo di manipolare la verità.

L’Europa osserva

Meta e Google hanno appena introdotto le nuove regole europee sulla pubblicità politica online, imponendo l’obbligo di indicare chi finanzia gli annunci e di limitare il targeting personale.
Ma la realtà ungherese mostra i limiti di questa tutela: l’etichetta “contenuto generato da AI” è spesso assente o invisibile, e le piattaforme non riescono a filtrare in tempo reale la mole di materiale prodotto.

La legge europea sull’intelligenza artificiale (AI Act), approvata nel 2024, impone obblighi di trasparenza per i contenuti sintetici, ma non affronta direttamente il loro uso politico.
In altre parole, chi diffonde un video manipolato a fini elettorali può ancora agire nel vuoto normativo.

Budapest si giustifica, Bruxelles tace

Il commissario governativo ungherese per l’intelligenza artificiale, Laszlo Palkovics, invita alla prudenza ma lascia libertà totale: “Sarebbe consigliabile evitare di influenzare gli elettori con contenuti di AI — ma spetta a tutti decidere”.
Una posizione che tradisce il disegno più ampio di Orbán: fare dell’Ungheria un “attore regionale chiave nell’AI”, anche a costo di spingersi oltre la linea etica.

Il governo promette un “codice etico nazionale sull’intelligenza artificiale”, ma intanto ne sperimenta gli effetti sulla pelle dell’opinione pubblica.

Il nuovo rischio democratico

“Un video fake può avere più impatto di cento notizie vere”, ha spiegato la ricercatrice ungherese Petra Aczel.
Ed è proprio questo il cuore del problema: anche quando un contenuto è palesemente artificiale, una parte del pubblico continuerà a crederci.
Perché non reagisce con la logica, ma con l’emozione.

L’esperto ungherese-americano George Tisch parla di un “intruglio tossico” tra algoritmi e disinformazione: le piattaforme premiano ciò che genera engagement, e l’intelligenza artificiale fornisce l’ingrediente perfetto per manipolare il sentimento collettivo.

Dalla propaganda alla post-verità algoritmica

L’Ungheria è solo un’anticipazione di ciò che potrebbe accadere in molte altre democrazie.
Mentre l’Europa discute di regole, la realtà corre più veloce: la propaganda ha imparato a usare l’intelligenza artificiale meglio di chi dovrebbe controllarla.

E se oggi le bare dei soldati ungheresi sono solo un’invenzione digitale, domani potrebbero diventare l’immagine più condivisa di una verità che non è mai esistita.