In un’epoca in cui la trasformazione digitale è ormai il motore di ogni settore – dalla manifattura alla sanità, dal retail alla pubblica amministrazione – la professione legale sembra restare ancorata a un modello quasi ottocentesco. Gli avvocati italiani, in particolare, faticano a integrare tecnologie innovative come l’intelligenza artificiale nella loro attività quotidiana. È quanto emerge dall’ultima ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del Politecnico di Milano.
Nonostante un incremento del 3,5% degli investimenti digitali nel settore professionale, gli avvocati registrano una spesa media annuale di 10.400 euro, ben al di sotto di consulenti del lavoro (14.300 euro) e commercialisti (14.000 euro). Studi multidisciplinari, più inclini a sperimentare, superano addirittura i 28.000 euro.
Il paradosso è evidente: sebbene dichiarino di voler migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro (75% degli avvocati lo indica come priorità), pochi considerano le tecnologie digitali uno strumento utile a realizzare questo obiettivo. Le soluzioni che potrebbero semplificare attività ripetitive, favorire il lavoro da remoto o migliorare la relazione con i clienti restano ai margini.
AI: uno strumento percepito come minaccia
Solo il 12% degli studi legali utilizza l’intelligenza artificiale, e quasi sempre in modo marginale: ricerca di documenti (92%), redazione di atti (49%), creazione di contenuti comunicativi (24%). L’uso strategico, come il redesign dei processi o l’analisi predittiva dei dati, rimane un miraggio.
Un altro dato significativo riguarda la scarsa propensione alla formazione: solo il 5% degli avvocati partecipa a corsi o sviluppa progetti con partner esterni per innovare. La maggior parte adotta un approccio attendista o si limita a documentarsi autonomamente.
Eppure, l’AI potrebbe rappresentare un alleato prezioso per la professione forense. Supportare l’analisi di grandi volumi di dati, automatizzare la gestione contrattuale, prevedere l’esito delle controversie o identificare rischi legali emergenti: queste sono solo alcune delle potenzialità ancora inespresse. Al momento, però, la percezione diffusa è quella di un rischio più che di un’opportunità.
Tra tradizione e cambiamento: un equilibrio ancora lontano
Il modello sviluppato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano per misurare la propensione all’innovazione degli studi legali fotografa bene la situazione: gli avvocati si posizionano stabilmente sotto la linea mediana, schiacciati sul fronte della tradizione. Unica eccezione: la relazione con i clienti, che rimane un punto di forza. Ma senza strumenti digitali avanzati (CRM, analytics, piattaforme collaborative), anche questo vantaggio rischia di sfumare.
Sul piano organizzativo, il lavoro agile è adottato solo dal 28%-41% degli studi legali, ben lontano dalle percentuali raggiunte da altre professioni. Il risultato è un ecosistema che si muove per inerzia, più per adempiere obblighi normativi che per innovare davvero.
La sfida culturale prima di quella tecnologica
La vera barriera alla diffusione dell’AI negli studi legali non è solo tecnologica, ma culturale. La mancanza di visione strategica e l’avversione al cambiamento impediscono di cogliere i benefici che l’innovazione potrebbe portare, anche in termini di sostenibilità economica e competitività.
Il rischio? Rimanere ai margini non solo sul piano tecnologico, ma anche sul mercato. In un contesto dove le grandi law firm internazionali e i nuovi player digitali avanzano, chi non innova rischia di perdere rilevanza.
Una chiamata all’azione
Per invertire la rotta, serve prima di tutto un cambio di mentalità: ripensare i modelli di servizio, investire nella formazione continua e valorizzare le tecnologie come leva per creare valore, non solo come adempimento.
L’IA non sostituirà gli avvocati, ma potrà liberarli da attività a basso valore aggiunto, consentendo di concentrarsi su ciò che davvero conta: la consulenza strategica, la difesa dei diritti e la costruzione di relazioni di fiducia con i clienti.
Se la professione legale vorrà continuare a essere protagonista nel prossimo decennio, dovrà imparare a governare la tecnologia, non a subirla. E forse — finalmente — l’intelligenza artificiale potrà passare dal margine al centro dell’attività forense.