L’intelligenza artificiale nasce per innovare. Ma quando si trasforma in uno strumento per violare l’infanzia, genera un’urgenza nuova, drammatica. A lanciare l’allarme è il dossier “Intelligenza artificiale. Conoscere per prevenire”, presentato dall’Associazione Meter il 23 giugno alla Cei: un’indagine senza precedenti che fotografa un’emergenza invisibile e in crescita.
Bambini nel mirino: deepnude e chatbot come nuove armi digitali
Nel solo primo semestre del 2025, quasi 3.000 bambini sono stati “spogliati” digitalmente grazie a software di deepfake e manipolazioni AI. L’adescamento avviene attraverso chatbot capaci di imitare il linguaggio dei più giovani, creando un legame emotivo e ingannevole. Basta una foto innocente – scattata magari durante una festa o una partita – per essere trasformata in un’immagine sessualizzata, sovrapponendo virtualmente corpi, pose e contesti fittizi.
La denuncia è chiara: l’AI generativa permette oggi di produrre materiale pedopornografico senza contatto fisico, ma con danni altrettanto reali. Signal è l’app preferita dai predatori digitali: 507 gruppi pedopornografici sono stati segnalati solo nei primi sei mesi dell’anno, approfittando della crittografia per sfuggire a ogni tentativo di controllo.
Il grido della Cei: “Questa è una nuova forma di violenza”
Nel messaggio inviato alla conferenza stampa, il card. Matteo Zuppi e mons. Giuseppe Baturi parlano di una “violenza digitale, invisibile ma non per questo meno traumatica”. I minori vengono privati della propria dignità e del controllo sulla propria immagine, spesso senza nemmeno saperlo. Non è solo una questione tecnica: è una questione di coscienza. “La tecnologia non è il nemico – scrivono – l’indifferenza sì”. Ed è proprio questa la posta in gioco: la necessità di un’azione congiunta tra educatori, legislatori, famiglie, piattaforme digitali e aziende tech.
I giovani sono consapevoli, ma non protetti
Un questionario somministrato a quasi mille studenti tra i 14 e i 18 anni ha rivelato dati inquietanti. Il 92% ha usato un chatbot, più della metà conosce il deepnude e il 52% non sa distinguere un video reale da uno manipolato. Il pericolo è percepito (oltre il 90% lo considera grave), ma gli strumenti per difendersi sono insufficienti. La CEI, attraverso Chiara Griffini, propone un’alleanza educativa strutturata, che unisca scuola, famiglia, sport e comunità in un’unica rete di prevenzione.
L’Europa alza la voce: nuove regole contro gli abusi digitali
Di fronte a questa emergenza, anche le istituzioni europee iniziano a muoversi. Il Parlamento UE ha adottato il 18 giugno la sua posizione per aggiornare la direttiva sulla lotta agli abusi sessuali sui minori. La proposta segna un punto di svolta:
Le nuove regole prevedono pene più severe per chi produce, diffonde o possiede materiale pedopornografico, anche se generato tramite intelligenza artificiale. La creazione e diffusione di deepfake a contenuto sessuale su minori sarà considerata reato a tutti gli effetti, con sanzioni equivalenti al materiale reale.
Una delle novità più importanti è l’abolizione dei termini di prescrizione per questi crimini, riconoscendo che spesso le vittime trovano la forza di denunciare solo anni dopo. Viene inoltre introdotta una nuova definizione di consenso nei minori e si esclude la punibilità nei casi di rapporti tra coetanei consenzienti, salvo abuso di fiducia o dipendenza.
Il Parlamento chiede anche misure investigative più incisive: operazioni sotto copertura, sorveglianza discreta e il potenziamento degli strumenti digitali per le forze dell’ordine. Si sottolinea inoltre l’urgenza di proteggere i minori anche dallo streaming in diretta di abusi e dal reclutamento online.
Serve un salto culturale: responsabilità condivisa
Ma non basta punire. Il legislatore europeo chiama in causa anche il sistema educativo, le aziende tecnologiche, i social media e le famiglie. Il messaggio è chiaro: la protezione dei minori nel mondo digitale non può essere delegata. È una responsabilità collettiva, un lavoro da fare insieme. Lo ricorda anche Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale comunicazioni sociali della Cei: la parola chiave è insieme. Non bastano le leggi se non cambiano le coscienze.
Le tecnologie avanzano più in fretta delle leggi. Ma la politica può e deve accelerare. Il messaggio che arriva dal dossier Meter e dal Parlamento europeo è univoco: l’abuso online non è una devianza marginale, ma una minaccia strutturale, diffusa, spesso impalpabile, che richiede strumenti nuovi e coraggio normativo. Non è una questione tecnica. È una sfida di civiltà e non può essere ignorata sperando che il progresso tecnologico si fermi o si possa autodisciplinare.