Nel 2025, Google ha incassato una doppia sanzione da record: 425,7 milioni di dollari negli Stati Uniti e 325 milioni di euro in Francia, per un totale di circa 650 milioni di euro. Ma questa non è solo una notizia da prima pagina: è il simbolo di una svolta. La privacy, da diritto spesso ignorato, è diventata un terreno di scontro cruciale tra cittadini, aziende e istituzioni. E Google, stavolta, è finita nel mirino.
Il caso americano: l’opt-out che non funziona
Negli Stati Uniti tutto è partito da una class action. Gli utenti avevano disattivato le impostazioni di tracciamento, credendo di aver detto basta alla raccolta dei loro dati. Ma la realtà era un’altra: Google continuava a raccogliere informazioni tramite app di terze parti, eludendo il consenso esplicito. Una giuria californiana ha giudicato questa pratica ingannevole, anche se non frutto di malizia intenzionale. Il danno, però, è stato evidente: milioni di persone hanno scoperto che l’“opt-out” era solo una facciata.
Il caso francese: pubblicità senza consenso
Dall’altra parte dell’Atlantico, è stata la CNIL, l’autorità francese per la protezione dei dati, a colpire duro. Il colosso americano è stato accusato di aver mostrato pubblicità su Gmail senza aver ottenuto il consenso degli utenti e di aver imposto l’accettazione dei cookie durante la creazione di nuovi account. In Europa, il principio è chiaro: senza un consenso libero, informato e specifico, ogni forma di raccolta dati è illegittima. E qui, più che il danno economico, ha pesato la violazione del diritto.
Due modelli, un obiettivo comune
Quello che colpisce è la convergenza tra due sistemi giuridici molto diversi. Negli Stati Uniti, si procede attraverso vie legali, con risarcimenti proporzionati al danno provato. In Europa, invece, si agisce con sanzioni amministrative, colpendo anche solo il mancato rispetto delle regole. Ma il risultato finale è lo stesso: riaffermare il principio secondo cui i dati appartengono agli utenti, non alle piattaforme.
La fiducia tradita
Al centro di tutto, c’è un problema culturale prima ancora che tecnologico. Google aveva promesso trasparenza e controllo, ma ha disatteso quelle promesse nei fatti. Ha offerto agli utenti delle opzioni che sembravano garantire privacy, salvo poi ignorarle nei comportamenti reali dei suoi sistemi. E questo non è solo un errore di progettazione: è una rottura del patto di fiducia.
Un campanello d’allarme per le aziende
Per le aziende digitali, il caso Google suona come un allarme. La fiducia è diventata il capitale più prezioso nell’economia digitale, e le autorità stanno diventando sempre meno tolleranti verso le ambiguità. Non basta più scrivere belle policy: serve coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa. Non basta un banner per chiedere il consenso: serve che quel consenso sia reale, non estorto. Non bastano le buone intenzioni: servono trasparenza, audit, accountability.
Privacy by design: un cambio di mentalità
Soprattutto, serve un cambio di mentalità. In un contesto sempre più regolato – si pensi all’AI Act in arrivo – la protezione dei dati deve essere integrata fin dall’inizio, con un approccio “privacy by design”. Non è più sostenibile considerarla un problema da risolvere dopo, magari affidandosi a un avvocato. È una questione di progettazione, comunicazione, strategia.
La privacy come vantaggio competitivo
Siamo entrati in un’era in cui la privacy non è solo un obbligo legale, ma un valore competitivo. I consumatori premiano chi è trasparente e puniscono chi cerca scorciatoie. E la reputazione, una volta danneggiata, non si ricostruisce facilmente. Google ne è un esempio clamoroso, ma non sarà certo l’ultimo.
Il futuro si gioca sulla trasparenza
Le sanzioni inflitte nel 2025 sono un segnale forte. I cittadini stanno prendendo coscienza del valore dei propri dati. Le autorità stanno alzando il tiro. Le imprese, ora, devono scegliere: continuare con pratiche opache, sperando di restare impunite, o abbracciare un modello più etico, trasparente e sostenibile. Chi saprà cogliere questa svolta ne uscirà rafforzato. Chi no, dovrà prepararsi a pagare. In euro, in dollari, e soprattutto in fiducia.